Narrazione vs Storytelling
Story or die? Non morire per mancata narrazione. A patto che sia 'relazionale'
Reduce dalla presentazione dell’autobiografia di Giangi Milesi a Fundraising to Say, Raccontare è il mio mestiere, non posso che condividere spunti e idee sulla narrazione. Perché una delle parole umane che preferisco usare - al posto di storytelling - è appunto, sempre e comunque, narrazione.
Anzitutto ringrazio Maura La Greca, responsabile comunicazione Antoniano/Zecchino d’Oro, per le parole che ha scelto di usare nella prefazione a Raccontare è il mio mestiere di Giangi Milesi che peraltro ha scritto la sua autobiografia (personale e professionale) proprio per proteggerci «dalla perdita di esperienza per mancata narrazione».
La prefazione firmata da Maura è anche una lezione sulla comunicazione, una di quelle che ti fanno respirare e da cui emergi più libera e consapevole.
C’è stato un tempo in cui l’unica formazione dei più piccoli aveva luogo intorno al fuoco di un camino, attraverso il racconto fatto dai più anziani della vita e delle gesta di chi li aveva preceduti. Erano storie che indicavano vie da percorrere, personaggi così veri e coraggiosi da far sognare di diventare come loro, valori irrinunciabili e bussole per orientare il proprio cammino sulla terra. Il tutto sempre per un fine più alto della semplice sussistenza. Se diventavi racconto, significava che anche tu avevi piantato almeno una ghianda per costruire una foresta di cui avrebbero poi beneficiato in molti. Chissà poi quanto si sia consapevoli, lungo il percorso, di questo senso più alto del nostro agire e del fatto che solo questo sia davvero destinato a sopravviverci? [...] In un tempo in cui lo storytelling trasforma qualunque storia in un prodotto da vendere, anzi, da consumare, è ancor più necessario costruire una ‘comunità di pratica e di memoria’ che consegni a coloro che verranno il senso e i significati del nostro viaggio sulla Terra.
Grazie Maura, perché sappiamo che «lo storytelling è il modo più potente per immettere idee nel mondo di oggi» come ci dice lo scrittore e drammaturgo Robert McKlee che di storytelling vive.
Che bello! ho pensato, quando ho letto questa frase un po’ di anni fa. Coincideva perfettamente con ciò in cui ho sempre creduto e che la scrittrice Janet Litherland ha espresso benissimo: «Le storie hanno un potere. Dilettano, incantano, toccano il nostro cuore, insegnano, richiamano, ispirano, motivano, sfidano. Ci aiutano a capire. Imprimono immagini nella nostra mente. Vuoi fare il punto su una vicenda o sollevare interrogativi? Racconta una storia».
È dunque così ‘umana’ la narrazione che per questo alla parola storytelling preferisco appunto il termine narrazione, perché è legata all’antropologia, più che al marketing.
Il potere delle storie
A tal proposito ho seguito il consiglio di lettura di unaerreduetti e ho divorato Story or die di Lisa Cron che di lavoro fa la story coach. Praticamente insegna a scrivere storie che permettano alle persone di vivere «un cambiamento profondo». Lavora con tanti scrittori e condivide numerosi esempi di brand.
Lisa entra a gamba tesa in tema di storytelling, dribblando il viaggio dell’eroe e proponendo un esercizio molto pratico e ben strutturato per conoscere il proprio pubblico e trovare la storia giusta per lui (che consiglio di fare. Io l’ho fatto). Tutto questo perché «i fatti da soli non convincono nessuno» come hanno dimostrato i più recenti studi di neuroscienze, psicologia cognitiva e biologia evolutiva.
Non puoi combattere i fatti con i fatti. Non sono i fatti in sé ad essere il problema, il significato soggettivo che il tuo pubblico legge nei fatti è ciò che impedisce di ascoltare ciò che stai veramente dicendo […] Devi prima capire da dove viene quel significato soggettivo […] Le storie si sono evolute appositamente per dare un senso al mondo.
Fatti o storie
Ovviamente, da giornalista amante dei fatti e di quei dati che, se ben raccolti e letti, spesso sono più indicativi di molte parole, ho cercato subito il muro più duro contro cui sbattere la testa. Tuttavia, prima che l’emicrania prendesse il sopravvento, ho raggiunto il punto di Story or die? in cui Lisa cita il neuroscienziato Matthew D. Lieberman che nel suo libro Social informa di come:
Sempre più evidenze scientifiche suggeriscano che uno dei fattori principali dietro l’ingrandimento del cervello umano, avvenuto durante l’evoluzione, sarebbe quello di facilitare le nostre competenze cognitive sociali, la nostra abilità a interagire in accordo con gli altri. In tutti questi anni abbiamo pensato che i più intelligenti tra noi avessero capacità analitiche particolarmente sviluppate. Ma da una prospettiva evolutiva, forse i più intelligenti tra noi sono quelli con le migliori abilità sociali.
Anzitutto mi sono sentita meno scema - condizione che mi ‘sopporto’ incollata addosso dagli anni del Ginnasio - quindi ho ringraziato la sorte per avermi fatto approdare alla comunicazione sociale. Narrazione e relazione sono dunque scientificamente legate. Il non profit non ha più scuse per non essere il King della narrazione per il bene comune.
Parliamo allora di Narrazione Relazionale.
Emozione e pensiero
Tutto bene. Ma non benissimo.
A questo punto avrei tre domande.
Il confine tra narrazione autentica e manipolatoria rischia di essere molto labile. Quindi cosa fare?
Lisa risponde alla fine del libro, secondo me in modo onesto e realistico:
«La storia si è evoluta appositamente per aiutarci a dare un senso al mondo, gli stessi elementi che di essa ci attirano e che incorporano la realtà di quella storia nella nostra realtà rendono facile per le notizie false propagarsi a macchia d’olio […] Ecco perché non è mai stato così imperativo come oggi capire come funzionano, non solo per persuadere e influenzare, ma anche per essere consapevoli di quando vengono usate per convincerci di qualcosa da cui, se ci pensiamo un momento su, fuggiremmo a gambe levate. Perché tutto sommato è piuttosto facile usare le storie per hackerare la programmazione del nostro cervello e manipolarci per farci credere cose false, facendoci combattere contro la verità, come se da questa lotta dipendesse la nostra vita […] Le storie non sono puro intrattenimento. Le storie sono coinvolgenti, perché così prestiamo loro attenzione. Non è una scelta. Quando una storia ci ha catturato, vuol dire che ha hackerato il nostro cervello, che ne siamo coscienti o meno. Quando una storia finisce, ne usciamo cambiati. E poi andiamo fuori e cambiamo il mondo».
A questo punto temo un altro rischio: che l’emozione di chi legge diventi paradossalmente essa stessa la storia, in questa ricerca ad ogni costo dell’empatia.
La relazione autenticamente generativa è conseguenza solo dell’empatia? Non c’è anche spazio per una presa di consapevolezza fattuale? La consapevolezza - che dovrebbe essere l’anticamera di ogni scelta - non può esprimersi anche senza il passaggio emozionale?
Queste domande non sono volte a sminuire le emozioni. Anzi, finalmente la scienza ne riconosce l’antropologico significato. Quello che mi (vi) chiedo è piuttosto se, per rendere efficace la comunicazione di una buona causa - buona per davvero - l’unico grimaldello (sulla breve e sulla lunga distanza) sia sopra ogni altra cosa la spinta emozionale.
Mi piacerebbe ci fosse anche un mondo che, per esempio, di fronte ai dati del gioco d’azzardo in Italia che dimostrano quanto questo fenomeno ci tocchi da vicino, anche se non giochiamo, non avesse sempre e comunque bisogno della testimonianza di chi nella trappola dell’azzardo ha rischiato di morirci, per cominciare a interessarsi al tema. Oppure che possa, non dico bastare, per carità, ma guadagnare immediata autorevolezza l’esperto che ci dimostra quanto gli schermi facciano male al cervello dei nostri figli… tanto per fare due esempi di temi, peraltro tra loro legati, che seguo per interesse sia professionale che personaleL’evoluzione della specie umana è così perentoria (siamo schiavi delle storie punto e basta) oppure può essere guidata al meglio per la nostra piena realizzazione di esseri umani, unendo emozione e ragionamento, storie e fatti, immagini e dati? Oggi, dopo secoli di Storia e di Evoluzione, non rischiamo di diventare schiavi dello storytelling, piuttosto che protagonisti della nostra storia attraverso sia una narrazione autenticamente relazionale (che mi sembra una definizione più interessante rispetto a narrazione empatica) sia una allenamento al pensiero che non sempre e non per forza può essere comunicato in modalità narrativa e/o per immagini? Ci sarà pure un modo per ri-allenare il pensiero, insieme alle emozioni?
Che ne pensate?
Io non ho una risposta netta, però penso che, oltre al rischio paradossale che l’emozione di chi legge diventi la storia, a lungo andare sia l’engagement a conferire valore alla storia e dunque al suo messaggio, piuttosto che il contenuto. Come avviene nel marketing che, attraverso la persuasione coinvolgente e l’‘uncinaggio’ dell’attenzione (cit. Hooked: How to Build Habit-Forming Products di Nir Eyal), trasforma i consumatori in attori della storia, attuando una vera e propria manipolazione. Ovviamente alcune leve del marketing servono anche al fundraising, ma il fundraising non è solo marketing. È molto molto di più.
Sono umilmente convinta che una delle differenze sostanziali tra noi e il marketing stia anche nella scelta delle parole. Per questo propongo di usare narrazione nella sua accezione più pienamente relazionale - come ho accennato nell’articolo precedente - invece che storytelling.
Meglio di me lo scrive il filosofo Byung-Chul Han in La crisi della narrazione. Informazione, politica e vita quotidiana: «Vivere è narrare. L’essere umano, in quanto animal narrans, si distingue dagli altri animali per il fatto che narrando realizza nuove forme di vita. La narrazione ha la forza del nuovo inizio. Lo storytelling di contro conosce solo una forma di vita, quella consumistica».
Comunicare il sociale con le parole giuste sono convinta che sia necessario quanto raccogliere fondi. Solo con le parole umane possiamo innescare quella narrazione che sensibilizza le persone a sostenere una buona causa che non è solo nostra, ma della comunità.
Chiedo vostri contributi in proposito.
Di seguito quello della mia partner Giulia Barbieri, co-founder di Non Profit Factory:
Il fundraising funziona se l’atto della comunicazione prevede le storie in ogni momento della relazione con il donatore o con il potenziale donatore. Le storie infatti fanno parte della cura della relazione donativa. Perciò, sì, è importante mettere al centro le storie, a patto di essere consapevoli del fatto che hanno una struttura narrativa ben precisa che va declinata a seconda dello strumento di comunicazione scelto.
Inoltre, quando è il momento di rendicontare l’impatto generato dalla nostra buona causa grazie alle donazioni, ecco che le storie tornano utili anche nella comunicazione quantitativa. Perché funzionano così bene? Perché al centro ci sono sempre le persone.
Per tutti questi motivi anche secondo me le parole narrazione e racconto sono preferibili al termine storytelling, proprio perché più aderenti alla centralità della persona, piuttosto che a quella del marketing.
Inoltre narrazione rimanda immediatamente alla sua struttura, appunto autenticamente narrativa, volta a spingere alla donazione sempre e solo in modo etico.